Il PIL fa la felicità? I nuovi indicatori

Dalla seconda guerra mondiale, uno stato è considerato “ricco” se produce e vende, se i suoi scambi economici sono consistenti; il benessere è economico e materiale, e sussiste solo grazie alla crescita economica. Tuttavia, la critica di questa misura della ricchezza nazionale come l’unica possibile si accompagna alla proposta di nuovi concetti: una ridefinizione del termine ricchezza al di là della mera ricchezza economica, il concetto di benessere o ancora di felicità, come nell’Indicatore di Felicità del Bhutan.

Al di là delle sfumature che i diversi autori o gruppi attribuiscono a questi concetti, essi contengono nozioni quali la soddisfazione dei bisogni fondamentali, intesi non come mancanze ma come potenzialità di sviluppo personale e collettivo (alimentazione, alloggio, salute, istruzione, cultura, partecipazione alla vita comunitaria), insieme alle nozioni di pari opportunità, lavoro o altre attività valorizzanti, protezione di risorse naturali e ambiente vitale ecc. Le relazioni sociali, così come il tempo sociale, legano l’individuo alla comunità allargata.

Tali concetti recuperano il loro valore aggiornando il loro significato. Mettere in discussione la nozione di ricchezza, benessere o felicità, malgrado questi termini siano inflazionati o inquinati dal contenuto materialista della società del progresso, diviene così una sfida civile e democratica, «un’assunzione volontaria, consapevole e collettiva del nostro destino» (Méda, 1999).

In termini di politiche pubbliche, ridefinire la ricchezza significa utilizzare diversi strumenti di misurazione, un nuovo sistema e una nuova gerarchia di valori, una nuova valutazione di «ciò che conta davvero».

L’indicatore di crescita economica che misura le variazioni del PIL (Prodotto Interno Lordo) è un riflesso inadeguato del benessere di una società. Tormentone di ogni anno, per i governi e i media il PIL resta il simbolo del successo e del progresso, malgrado riceva numerose critiche da oltre trent’anni: evita del tutto la questione del suo contenuto qualitativo; contabilizza come contributo positivo tutto ciò che possiede valore aggiunto per l’economia di un paese, includendo le spese che servono essenzialmente a riparare i danni provocati dalle attività umane di produzione e consumo (inquinamento, esaurimento delle risorse naturali, incidenti); molte attività che contribuiscono al benessere (per esempio, quelle non retribuite) non vengono valorizzate dal mercato, e quindi escluse dal PIL; il PIL è indifferente alla distribuzione della ricchezza creata in tal modo, al costo ambientale, alla flessibilità del lavoro nella maggior parte dei settori di produzione ecc. Si pongono dunque alcune domande fondamentali: Una crescita per chi? Quali sono i costi nascosti – sociali, ambientali, umani?

Il PIL verde, indicatore della vera ricchezza, dello sviluppo umano, del benessere economico, della felicità, costituisce una proposta per offrire, in quanto società, nuovi elementi strutturali alla nostra visione del mondo, ai nostri valori, alla direzione che desideriamo seguire a livello collettivo.

Per quanto riguarda l’economia solidale, l’ambizione dei suoi attori di essere portatori di un altro modello di sviluppo dipende dalla loro capacità di far evolvere le rappresentazioni dell’economia e della ricchezza al di là del mercato e della crescita. La posta in gioco è dunque duplice: mostrare i motivi per cui le iniziative e le reti di economia solidale procurino benefici collettivi specifici alla società e, al contempo, contribuiscano a una nuova rappresentazione dell’economia. Di conseguenza, la valutazione di ciò che costituisce la ricchezza di una società è decisiva sia per i criteri e le modalità di valutazione del bene comune (cosa compone la ricchezza di un territorio?) che per gli indicatori propri dell’economia solidale (come stimarla? come misurarla?).

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